Perché i raggi X possono essere
terapeutici nella malattia di Alzheimer
ROBERTO COLONNA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 06
aprile 2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Lo studio dei meccanismi che possono
giustificare il paradossale effetto
positivo dei raggi X sulle manifestazioni cliniche della malattia di
Alzheimer ha riportato in auge una questione che ha fatto scalpore circa tre
anni fa, impegnando in discussioni e dibattiti neurobiologi, neuropatologi,
neurologi, radiologi e ricercatori nel campo degli effetti delle radiazioni
ionizzanti.
Dopo l’esposizione del cervello di
pazienti affetti da malattia di Alzheimer e malattia di Parkinson a basse dosi
di radiazioni ionizzanti, quali quelle necessarie per un esame CT standard, si
può avere una remissione parziale dei sintomi, come è stato riportato per la
prima volta nel 2016. Bevelacqua e Mortazavi, autori di uno studio sulle ragioni di questo
apparente effetto terapeutico, osservano che è stato considerato incredibile
soprattutto da coloro che non conoscono la neurohormesis[1].
I ricercatori che compirono le prime
osservazioni, per spiegare le ragioni dell’effetto, ipotizzarono che le basse
dosi di raggi X fossero in grado di esercitare un’azione di stimolo dei sistemi
di protezione adattativi del paziente contro la neurodegenerazione.
Nuovi studi hanno confermato che bassi livelli di stress possono produrre risposte protettive contro i processi
patogenetici. Su questa base, Bevelacqua e Mortazavi provano a delineare i probabili meccanismi
responsabili di questa neurohormesis.
(Bevelacqua J. J. & Mortazavi S. M. J., Alzheimer’s Disease: Possible Mechanisms
Behind Neurohormesis Induced by Exposure to Low Doses
of Ionizing Radiation. Journal of Biomed Physics and Engineering
8 (2): 153-156, 2018).
La provenienza degli autori è la seguente: Bevelacqua Resources, Richland, WA (USA); Biophotonics Lab, Department of Electrical Engineering, University
of Wisconsin Milwaukee, Milwaukee, WI (USA); Ionizing and Non-Ionizing
Radiation Protection Research Center (INIRPRC), Shiraz University of Medical
Sciences, Shiraz (Iran).
Bevelacqua e Mortazavi hanno studiato i possibili
meccanismi protettivi indotti dalle basse dosi di radiazioni, ipotizzando la
promozione della ricostituzione del rivestimento mielinico danneggiato e la prevenzione dei processi
neurodegenerativi causati dallo stress
ossidativo. Si ricorda che una demielinizzazione focale è stata spesso
rilevata in prossimità delle placche β-amiloidi sviluppate nella
neocorteccia. Sappiamo che l’accumulo extracellulare di sostanza amiloide,
costituita dai peptidi βA di
42-43 aminoacidi (secondo Glenner e Wong), è l’elemento più studiato della patogenesi della
Malattia di Alzheimer e, secondo l’opinione corrente, nella maggior parte delle
forme della malattia la “cascata amiloide”, che porta alla formazione di
strutture macromolecolari filamentose (Lansbury),
precede e induce l’alterazione neurofibrillare
intracellulare. In particolare, gli aggregati βA extracellulari attivano
una successione di eventi che porta le chinasi
intracellulari a fosforilare in eccesso la proteina tau, con conseguente
cambiamento delle sue proprietà chimiche ed avvio dello scompaginamento delle
strutture neurofibrillari.
Secondo questa interpretazione, ogni azione
che contrasti gli effetti dell’amiloide extracellulare potrebbe avere
ripercussioni positive, interferendo con i processi patogenetici innescati o
favoriti dai peptidi βA. Tuttavia, non vi sono evidenze o segni che possano
far supporre una regressione delle placche indotta da basse dosi di radiazioni.
Come osservano i due autori dello
studio, si deve notare che è stato dimostrato un effetto sulla rigenerazione
neurale e il recupero funzionale da lesione trasversale di nervi periferici: le
basse dosi di radiazioni inducono un’accresciuta produzione di VEGF e GAP-43
che contribuiscono alla riparazione del danno, promuovendo sia la rigenerazione
degli assoni sia la produzione di nuova mielina da parte delle cellule di Schwann. Un meccanismo simile potrebbe agire anche a
livello centrale, nel cervello del paziente affetto da demenza
neurodegenerativa, in particolare agendo da stimolo sugli oligodendrociti
produttori della guaina mielinica danneggiata negli assoni alla periferia delle
placche amiloidi.
Un altro meccanismo ipotizzato da Bevelacqua e Mortazavi
consisterebbe nella prevenzione dei processi neurodegenerativi causati da stress ossidativo.
È noto da tempo che alte dosi di
radiazioni possono indurre la formazione di specie reattive dell’O2,
lo sviluppo di stress ossidativo e
neuro-infiammazione; al contrario, le basse dosi sembrano in grado di mitigare
gli effetti di danno tessutale attraverso lo stimolo di difese anti-ossidative.
Anche se si riuscisse a dimostrare con
certezza l’intervento di questi meccanismi, un impiego terapeutico di basse
dosi di radiazioni ionizzanti attualmente rimane sconsigliato, soprattutto
perché vi sono ancora troppi problemi neurobiologici e neuropatologici non
risolti.
Ad esempio, il rapporto della neurogenesi permanente del cervello adulto con la malattia
di Alzheimer non è ancora definito e presenta aspetti di difficile interpretazione
e questioni controverse. Infatti, numerose osservazioni sperimentali hanno
confermato il potenziale effetto positivo della produzione di nuovi neuroni sui
processi degenerativi - anche se la migrazione dalle sedi di origine a quelle
di lesione in genere non avviene - ma il problema è che nella malattia di
Alzheimer, invece di essere ridotto, il tasso di produzione di nuovi neuroni è
significativamente accresciuto. Intanto, la terapia cellulare già si pratica
come strategia sostitutiva in molti centri specializzati negli USA e in Europa,
e naturalmente sarebbe incompatibile con la somministrazione di radiazioni che
interferiscono con la proliferazione e la differenziazione delle cellule
staminali neurali.
In conclusione, condividendo
l’auspicio degli autori dello studio, speriamo che il prosieguo della ricerca
aiuti ad accertare con precisione i meccanismi molecolari dell’effetto positivo
dei raggi X, e che da queste nozioni possano derivare strategie terapeutiche
più efficaci di quelle attuali.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione
della bozza e invita alla
lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Roberto Colonna
BM&L-06 aprile 2019
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[1] Si ricorda che per hormesis si intende un fenomeno dose-risposta caratterizzato da un effetto di stimolo a basse dosi e di inibizione a dosi elevate.